Il rapporto tra l’icona e lo spazio della liturgia è da sempre al centro della riflessione dei Padri della Chiesa ma anche dei teologi e degli studiosi dell’Oriente cristiano che si sono soffermati su tale argomento. Lo ha fatto anche padre Vladimir Zelinskij, autore sia all’estero che sulla stampa russa di libri, saggi e articoli sul pensiero religioso russo, la situazione della Chiesa ortodossa in Russia, i problemi della società. È stato docente di lingua e civiltà russa presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia e di Milano e nel 1999 è stato ordinato sacerdote a Parigi per le comunità ortodosse di Brescia (esarcato russo del Patriarcato di Costantinopoli). Il brano che proponiamo è tratto da un più ampio studio, pubblicato nel 2000, dal titolo “L’arte e l’Ortodossia”.
di padre Vladimir Zelinskij
L’icona e lo spazio liturgico
La stessa unità è simbolicamente raffigurata ed invocata all’inizio della liturgia orientale, durante il rito delle protesi e della proscomidia, quando tutta la Chiesa, cominciando dal Cristo e della Sua Madre e fino ai tutti i suoi membri viventi e defunti, è misticamente radunata nella preghiera dell’invocazione e nei pezzi di pane che vanno consacrati durante la celebrazione eucaristica. Quest’unità mistica si esprime anche attraverso le icone; ogni chiesa ortodossa si presenta come un piccolo museo delle immagini, ma saremo ciechi se le prendiamo per i pezzi di un museo. Quale che sia il loro valore artistico, queste immagini presentano i loro prototipi. L’icona ha la vita propria solo all’interno del lavoro spirituale, nella vita della preghiera o della contemplazione; nel museo essa perde il suo senso ontologico e sacramentale. Il VII Concilio ecumenico dice: «Sia mediante la contemplazione della Scrittura, sia mediante la rappresentazione dell’icona… noi ci ricordiamo di tutti i prototipi e siamo introdotti presso di loro». Questo vuol dire che siamo proprio nel mistero della loro santità, in mezzo a loro. Un altro Concilio del 860 esprime lo stesso pensiero: «Ciò che il Vangelo ci dice con la parola l’icona ce lo annuncia con i colori e ce lo rende presente».
Le icone, in un certo senso, “raccontano” il loro prototipo, portano una buona notizia della sua presenza fra di noi e nel Regno dei cieli, fanno vedere l’indescrivibile fra di noi. L’idea principale dell’iconoclasmo del VI-VII secolo fu che l’indescrivibile e incomprensibile non può essere raffigurato, che il mistero divino non si lascia svelare. Ma in verità l’icona non vuole portare «l’immagine dell’inesprimibile», come dice san Gregorio Palamas, ma solo il suo volto umano, penetrato dalla luce inesprimibile. Il Cristo «è l’immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura» dice san Paolo (Col 1,15), che vuol dire, che il Cristo rende presente l’invisibile volto del Padre, ma anche il visibile volto della creazione nella luce della Trinità. «Io sono la luce del mondo» dice Cristo (Gv 8,12) e la Chiesa canta: «La Tua luce risplende sui volti dei Tuoi santi». L’icona di Cristo fa risplendere il vero volto dell’uomo nella luce della Trinità così si può esprimere la saggezza antropologica dell’icona. «E proprio la ricchezza della relazione trinitaria — dice il filosofo contemporaneo Massimo Cacciari — e quindi di una antropologia fondata su questa relazione, che spiega questo mistero dell’irradiarsi della luce da una fonte che si piega sulla creatura che in tutta la sua creaturalità ritorna a quella luce».
L’idea principale che porta l’icona è l’idea della Trasfigurazione dell’essere umano o della sua deificazione (teosis). La deificazione significa il cambiamento sostanziale del nostro essere, ma lo svelare la presenza nascosta della luce divina nell’uomo fin dalla sua creazione all’immagine e somiglianza di Dio. Questa luce fa vedere ciò che è invisibile. «La luce dell’intelletto è scritto nel Tomo Aghioretico di San Gregorio Palamas, è diversa da quella che è percepita dai sensi. La luce fisica ci mostra gli oggetti percepibili mediante i sensi, mentre la luce intellettuale ci rende chiara la verità nel nostro pensare».
Così l’icona diventa la testimone della luce del pensare o del mondo interiore, la luce manifestata attraverso i colori e le immagini. Ma il segreto dell’icona non è soltanto nell’immagine del volto pieno della luce divina, ma nel risveglio della stessa luce nel suo spettatore che diventa un «complice della luce». Quando per esempio, guardiamo la famosa icona della Trinità di Andrej Rublëv, non vediamo soltanto tre Angeli che ci ricordano le Tre Persone Divine, ma, se le percepiamo «in spirito e verità», viviamo (o siamo chiamati a vivere) una vera e propria trasformazione interiore, diventiamo gli ospiti della Trinità o, invece, come Abramo e Sara riceviamo la Trinità nella casa della nostra anima. In questo senso si può capire la formula di Pavel Florenskij che scrisse: «Se esiste la Trinità di Rublëv, esiste anche Dio! La luce dell’icona e la luce che entra nella nostra anima sono della “stessa sostanza” divina, e così la Trinità diventa l’esperienza vivente del tutto nostro essere e noi non abbiamo bisogno delle altre prove dell’esistenza di Dio, perché la Sua presenza reale portiamo in sé. Pregare con le icone significa proprio questo: sentire e percepire la stessa grazia o la stessa luce che riempia il Santo Volto e che santifica anche noi».
Dopo aver pregato con le icone, possiamo cantare come il coro canta dopo la comunione: “Abbiamo visto la vera Luce, abbiamo ricevuto lo Spirito sovraceleste, abbiamo trovato la fede vera adorando l’inseparata Trinità: Essa infatti ci ha salvati”.