Cos’è l’Icona?

L’icona, cioè l’immagine che la Chiesa nella sua tradizione ha consegnato ai credenti come luogo della presenza di Dio e canale privilegiato di grazia, fonda la sua essenza nel cuore stesso della fede cristiana, nel mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio. Secondo la concezione veterotestamentaria, ripresa poi dagli iconoclasti, non è possibile rappresentare Dio, poiché qualunque immagine venga realizzata di lui non può essere che un idolo pagano. E proprio il timore che gli adepti alla nuova religione, ancora malfermi e incerti nella fede, potessero ricadere nell’idolatria, portò i Padri della Chiesa dei primi secoli a diffidare delle immagini e a esortare i cristiani ad astenersene. Eppure, paradossalmente, sarà proprio da questo veto di rappresentare Dio che prenderà le mosse, durante le persecuzioni iconoclaste, la strenua difesa delle sacre immagini: san Germano di Costantinopoli e san Giovani Damasceno nelle loro argomentazioni dimostrano che, con l’incarnazione, tale proibizione non ha più alcuna ragion d’essere, poiché è stata radicalmente mutata la relazione fra il Creatore e le creature.
San Germano, patriarca di Costantinopoli, afferma: In memoria perenne della vita nella carne del nostro Signore Gesù Cristo… noi abbiamo ricevuto la tradizione di rappresentarlo nella sua forma umana, cioè nella sua Teofania visibile, ben sapendo che in questo modo esaltiamo l’umiliazione del Verbo di Dio.

Il senso profondo dell’icona

Chiunque venera un’immagine, venera in essa la realtà che vi è rappresentata si afferma nel documento conciliare che confuta definitivamente l’iconoclastia, nell’843. Nel medesimo testo si raccomanda di collocare immagini sacre, in qualunque materiale e tecnica, ovunque vivano dei fedeli, affinché contemplando e venerando le icone essi siano attratti dagli “eroi” della fede e seguano il loro esempio di vita. Infatti la venerazione non è rivolta al legno dipinto o al mosaico, ma tende attraverso di essi al modello rappresentato, che vive in una realtà diversa da quella umana, la realtà di Dio. Se questa interpretazione cristiana dell’immagine ci spiega da un lato la costante preoccupazione della Chiesa di spiritualizzare le forme e i soggetti, creando un linguaggio espressivo allusivo e simbolico del divino, dall’altro ci rivela l’importanza da essa attribuita alla contemplazione e al culto dell’icona. Dice Sergij Bulgakov nel suo testo “Ortodossia”: L’icona è una necessità essenziale per il culto (..) è infatti un luogo di presenza di grazia, come un’apparizione di Cristo. Si prega davanti all’icona di Cristo come davanti a Cristo stesso (..) l’esigenza di avere con sé e davanti a sé l’icona proviene dalla concretezza del sentimento religioso, che non si accontenta della sola contemplazione spirituale, ma cerca una vicinanza diretta, sensibile, come è naturale per l’uomo composto di anima e di corpo.. la venerazione delle sante icone si fonda quindi non solo sul contenuto stesso delle persone o degli avvenimenti in essi raffigurati, ma sulla fede in questa beata presenza, che viene data dalla Chiesa in forza di rito di benedizione dell’icona. Mediante la benedizione avviene nell’icona di Cristo un misterioso incontro fra colui che prega e Cristo stesso (..).
Tutte le icone, fondandosi sull’incarnazione, sono icone di Cristo: sia quelle che lo raffigurano direttamente sia quelle che si riferiscono ai momenti più significativi della sua vita terrena (le Feste), sia quelle che rappresentano la sua divina Madre la Theotokos, nel cui corpo verginale il Verbo si è fatto carne ed è venuto in mezzo a noi! E che ci rivelano il volto dei santi, uomini come noi, grandi nella fede, che nella vita hanno avuto costantemente come modello Cristo, tanto da diventare “speculari” a lui, immagini (eikon) di lui. La tradizione della Chiesa, custode attenta dell’eredità apostolica, definisce e tramanda i canoni da cui l’iconografo non può allontanarsi, senza rischiare di cadere in gravi errori, poiché non è la sua personale verità che deve emergere, ma la verità di Dio.
Chi “scrive” icone, oggi come nei secoli passati, si pone al servizio della comunità cristiana, presta le sue mani e il suo talento affinché si compia la redenzione del mondo, consapevole di aver ricevuto una precisa vocazione e un’altrettanto precisa missione da compiere.

Le prime icone

Sappiamo bene inoltre che i “divini imperatori” di Roma facevano giungere in tutte le province dell’impero il loro ritratto, affinchè i sudditi anche delle più remote regioni conoscessero la loro persona. Al ritratto dell’imperatore si attribuiva quella caratteristica di imago efficiens per cui chiunque lo vedeva, vedeva l’imperatore e ogni decisione presa (per esempio nei tribunali, dai magistrati al cospetto di un ritratto imperiale), era ordine indiscutibile dell’imperatore stesso. Questa teoria, derivata dal pensiero neoplatonico, venne assunta dai Padri della Chiesa per dare una giustificazione teoretica alla presenza reale del Santo nella sua rappresentazione. Dice Attanasio di Alessandria, nel IV secolo: Nella rappresentazione sta l’idea e la persona.. la somiglianza è la stessa nei due casi.
Il cristianesimo aveva già raggiunto una certa maturità e una notevole diffusione quando si cominciò a rappresentare Cristo, la sua vita ed il suo martirio. Le icone più antiche possono essere datate alla prima metà del IV secolo, quando in seno alla Chiesa (sollecitata dalle nascenti eresie) si fece più precisa la coscienza della natura teandrica di Cristo e i Padri stabilirono nei Concili che le immagini avrebbero potuto essere d’aiuto al consolidamento della fede: si diffusero così le rappresentazioni di Cristo, della Madre di Dio e dei Santi. Le prime icone furono eseguite a encausto, un’antica tecnica (risaliva agli Egizi) che si avvaleva della cera come medium: i pigmenti miscelati in essa venivano praticamente fusi nel supporto di legno con un arnese incandescente. Questa metodica consentiva risultati assai soddisfacenti poiché i colori, inattaccabili dall’umidità, risultavano trasparenti, caldi e profondo. Era questa la tecnica con la quale erano stati eseguiti i ritratti di mummie egizie di cui si è parlato prima; dipinti su tavolette di legno, i loro volti erano idealizzati e un particolare risalto veniva dato ai grandi occhi pensosi, che parevano guardare il mondo dal quale erano partiti con un assorto, sereno distacco. Questi ritratti funerari esercitarono una notevole influenza sulla pittura di icone anche dal punto di vista tecnino, come dimostra la considerevole somiglianza esistente fra i ritratti del Faijum del III e IV secolo e le più antiche icone ritrovate sul monte Sinai e custodite nel monastero di Santa Caterina (VI secolo).
Purtroppo le icone più antiche sono giunte fino a noi in numero assai limitato, le ingiurie del tempo, le circostanze climatiche e le vicissitudini storiche (guerre, incendi, terremoti) ne distrussero molte, ma la cause che impedì in modo più determinante a una grande quantità di queste opere d’arte di giungere fino ai giorni nostri fu certamente la controversia iconoclasta: suscitata nel 726 dall’imperatore Leone III Isaurico e sostenuta anche da molti teologi, ebbe termine soltanto nell’anno 843, quando fu ristabilita la venerazione delle sante immagini già affermata dai padri conciliari a Nicea nel 787. La furia devastatrice degli iconoclasti si abbattè irreversibilmente su mosaici, icone e affreschi: soltanto il monastero di Santa Caterina sul Sinai fu risparmiato, perché trovandosi chiuso fra le terre islamiche, non potè essere raggiunto. Ma anche nei momenti di maggior recrudescenza del conflitto iconoclastico, gli iconoduli ( devoti alle icone) non abbandonarono, guidati da grandi personalità quali San Giovanni di Damasco e il Patriarca Niceforo, la difesa della pittura e venerazione delle rappresentazioni di Gesù, di sua Madre e dei santi, come legittimo elementi della teologia ortodossa.
Dopo il martirio dell’iconoclastia ci si accinse con rinnovata energia all’opera di decorazione delle chiese, ormai spoglie. In questo periodo – il IX secolo – Costantinopoli, la grande metropoli sede degli imperatori, è il faro della magnificenza artistica. La forte centralizzazione del potere favorì grandemente la produzione artistica: da ogni parte dell’impero furono convocati artisti per abbellire la città, e anche la pittura delle icone beneficiò di questo generale momento di prosperità. La città era particolarmente devota alla Madre di Dio, in suo onore furono costruite più di cento chiese nelle quali trovarono posto splendide icone, che divennero prototipi per ulteriori immagini. Tra le icone in onore della “Theotokos” le più venerate e famose erano la “Eleousa”, la “Blacherniotissa”, la “Platitera”, la “Hlaghiosoritissa”.

Da Bisanzio alla Russia

Nel XII secolo l’icona acquisisce le stesse squisite qualità artistiche dei mosaici monumentali, dai quali era ovviamente influenzata: ciò è evidentemente per esempio nel portamento delle figure, poste sempre frontalmente, e nell’espressione dei volti semplici, nobili, severi. L’esempio più caratteristico di questo periodo è la famosa Madre di Dio di Vladimir a tutti nota, dipinta a Costantinopoli nel primo trentennio del XII secolo e trasferita più tardi in Russia, dove divenne l’oggetto di culto più venerato del Paese.
Le Crociate fecero di Costantinopoli la loro vittima, in particolare la quarta durante la quale la città fu ferocemente saccheggiata. Diventa capitale del regno latino d’Oriente, Costantinopoli rimase nelle mani dei veneziani fino al 1261 e fu talmente depredata e impoverita che ogni produzione artistica vi fu resa impossibile. Nel 1261 Costantinopoli riacquistò la sua libertà e la catastrofe parve superata, ma era ormai evidente l’indebolimento dell’impero, un tempo tanto potente. In campo culturale e artistico pareva che il ruolo di Costantinopoli fosse ormai al tramonto. Infatti durante il mezzo secolo della dominazione latina l’attività artistica era stata ridotta al minimo e gli artisti erano andati a lavorare nelle regioni limitrofe dove però erano rimasti fedeli alla tradizione bizantina, tanche che spesso è difficile determinare la provenienza delle icone di questo periodo.
Nel corso del XIV secolo l’icona torna a essere una delle forme più rappresentative dell’arte continuando a seguire nello stile le principali linee evolutive del mosaico monumentale, ma su una scala minore: per questo motivo essa divenne più delicata e raffinata, permeata da un’evidente onda di umanità. Nel secolo successivo la raffinata eleganza e la manifestazione emotiva portarono a una trasformazione di maniera: le composizioni divennero più complesse, paesaggi e architetture si trasformarono in cornici per la figura umana, lo spazio come tale divenne parte della composizione, nella quale l’ombra è completamente bandita.

Nel 1453 gli ottomani conquistarono Costantinopoli, inferendo una ignominiosa disfatta all’impero bizantino, lasciandovi insanabili ferite e arrestando qualunque ulteriore sviluppo. I turchi invasero poi rapidamente il resto dell’Europa sud-orientale e il trionfo dell’Islam causò la crisi della fede ortodossa e della sua splendida arte. L’eredità stilistica della tradizione bizantina si mantenne viva in molti centri di produzione artistica, dove continuò a svilupparsi contrastando con la nuova cultura portata dagli usurpatori turchi. La Russia, dove l’arte dell’icona ebbe una fioritura particolare, merita un discorso a parte. Quando il Principe di Kiev Vladimir si convertì al cristianesimo e prese in moglie una principessa bizantina, anche l’arte della capitale giunse in quelle remote regioni. La città di Kiev, culla della fede ortodossa russa, fu la sede dei più antichi laboratori russi di icone, nei quali operavano artisti costantinopolitani secondo lo stile e l’iconografia della capitale. Il periodo di maggior splendore dell’icona russa inizia con la rinascita dello stato nazionale dopo il periodo delle incursioni tatare e la fioritura di uno straordinario movimento monastico iniziato da San Sergio di Radonez: tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo opera Andrej Rublev, monaco, straordinario iconografo e santo della Chiesa russa. Il suo capolavoro, la Trinità, segna la storia, la spiritualità e l’arte dell’icona in Russia e in tutti i Paesi dell’Oriente cristiano. I maggiori centri russi, così come i principali complessi monastici russi, elaborano proprie scuole iconografiche, nelle quali caratteristiche della cultura locale si fondono con la tradizione bizantina da cui germinavano. Dalla metà del XV secolo fra tutti emerge Mosca, avviata a diventare centro politico e culturale del Paese. Alle sue vicende saranno legate le successive fasi di fioritura e decadenza dell’icona.

La diffusione delle icone
nelle case e nella Chiesa

 

Dopo la “vittoria delle sante immagini” con cui si concluse nell’anno 843 la lotta iconoclasta, le icone si diffusero ancor di più fra i cristiani, che non solo le veneravano nelle chiese, ma le custodivano nelle case al posto d’onore, le ponevano sulle porte delle città, le issavano come labari alla testa degli eserciti sui campi di battaglia, le portavano in processione per le vie e i campi, per scongiurare pericoli o impetrare la grazia di un raccolto abbondante. Ovunque erano viste come presenze benefiche autorevoli, partecipi della vita umana in tutti i suoi aspetti: c’era quindi l’icona che proteggeva le partorienti, che accompagnava i pellegrini, che confortava gli ammalati o vegliava i moribondi, fino a quella che seguiva il defunto nella tomba, stretta fra le sue mani per precederlo come avvocato” davanti al trono di Cristo nel giorno del Giudizio. Le icone che oggi giungono più facilmente nei Paesi occidentali provengono dalla Russia e sono in maggioranza icone di piccole dimensioni, destinate per lo più alla casa e alla preghiera domestica. Nella casa russa infatti, almeno fino all’inizio del XX secolo, c’era sempre un piccolo santuario domestico, dove fra lampade e fiori erano esposte le icone protettrici della famiglia, alle quali si rivolgeva una devozione cristiana intima e affettuosa. Alle icone, prima ancora che agli abitanti della casa, andava il saluto dei visitatori.